La prima cosa che mi è venuta in mente leggendo questo elaborato, è come l’olio di palma abbia avuto un boom di utilizzo nell’industria alimentare, e adesso si stia facendo una forte sterzata nei confronti dell’uso di questo olio da diverse parti, anche a seguito di una opinione pubblica che sta puntando il dito contro questo prodotto. Solo ultimamente si fa un gran parlare dell’olio di palma nei principali prodotti alimentari ( ad esempio i prodotti da forno) e delle problematiche ad esso legate, segno che comunque in via preliminare a un così massiccio utilizzo all’olio di palma , non si sia fatta preliminarmente una analisi complessiva benefici/costi ( sempre che gli aspetti negativi che adesso vengono portati alla luce, siano effettivi).
Considerando i seguenti punti:
1) per favorire la diffusione delle piantagioni di palma da olio, nei principali Paesi produttori (Malesia e Indonesia) si procede al disboscamento di intere foreste pluviali, il che ha determinato un rilevante danno ambientale che fa dell’Indonesia il terzo emittente mondiale di gas serra;
2) secondo il rapporto congiunto della Banca Mondiale e del Governo britannico, il disboscamento indonesiano sarebbe responsabile del rilascio in atmosfera di 2,563 MtCO2e (milioni di tonnellate equivalenti di biossido di carbonio);
3) secondo il rapporto quinquennale FAO sulle foreste del 2007, l’Indonesia perderebbe un milione di ettari all’anno di foreste pluviali, con conseguente estinzione di specie autoctone protette;
4) la mancanza dell’intenso fenomeno di evapotraspirazione connesso alla distruzione della copertura forestale causa una variazione del regime pluviometrico a scala sovranazionale, rischiando di compromettere anche l’andamento della produttività dei suoli agricoli.
Ecco che cosa ha concluso la United States Environmental Protection Agency (EPA):
– è da escludere il biodiesel da olio di palma dai combustibili ecologici, proprio perché l’impronta di carbonio derivante dalla sua produzione non permette la riduzione del 20 per cento richiesta per le emissioni dei biocarburanti.
È probabilmente vero che non sia stata fatta un’ampia e corretta analisi preliminare dei costi-benefici, in particolar modo nei primi anni in cui iniziava a dilagare la coltivazione delle palme da olio anche in Paesi in cui questa non era presente (e già dagli inizi del ‘900).
Sicuramente si tratta di un tema molto delicato sotto innumerevoli aspetti, specialmente oggi che è molto dibattuto, tanto che ha meritato e merita una ricerca scientifica seria e approfondita; la ricerca deve essere supportata sia per l’impiego nell’alimentazione umana (con le problematiche ad esso legate), sia nel campo sociale ed etico, ma anche nei campi ecologici e biologici legati agli ecosistemi e all’ambiente. È bene far notare che l’attendibilità di una ricerca scientifica dovrebbe essere alta, anche se questa può effettivamente cambiare in base al metodo e all’argomento trattato. Un approccio scientifico implica una oggettività dei risultati, che contemporaneamente devono essere verificabili e ripetibili, oltre che affidabili, onesti e condivisibili. Gli studi sugli aspetti biologici implicano in questi casi studi di biochimica, con limitazioni talvolta dell’attendibilità specialmente quando si ragiona a “grandi sistemi” come nel caso degli approcci ecologici.
Per l’aspetto più olistico di un’analisi costi-benefici, come riportato anche nel documento, è difficile dare un parere univoco per via delle opinioni contrastanti che ci riporta il materiale scientifico. E’ importante valutare le reali incidenze dei diversi aspetti negativi, anche con ulteriori studi, per analisi di LCA (Life Cycle Assessment) in tutti i punti chiave del sistema. Ma questo non è facile.
Dall’altra parte è anche vero che il mercato che si è instaurato ha visto un immenso sviluppo dei guadagni, ed è facile intuire quale sia il peso del dio denaro anche sulla ricerca (fatta o… non fatta!).
La sensibilizzazione del consumatore di prodotti alimentari è aumentata negli ultimi anni, e prodotti come questo, sono stati spesso colpevolizzati. Per certi aspetti, non c’è dubbio, eccessi di olio di palma come alimento (o, meglio, come ingrediente) possono provocare danni alla salute umana.
È però bene non demonizzare a priori un prodotto, o un sistema. Nell’ambito dell’alimentazione umana sono state riportate diverse opinioni, anche nella letteratura scientifica, talvolta poi smentite (come per la cancerogenicità ipotizzata dell’olio di palma) o accettate (nel caso ad esempio dell’insorgenza del diabete e dell’impatto sul colesterolo LDL – il cosiddetto “cattivo”). Sono chiari gli effetti di un elevato consumo alimentare di acidi grassi saturi, ma questo vale sia per l’olio di palma che per gli atri alimenti che li contengono, anche in diversi rapporti. Molto spesso vengono ignorati gli aspetti positivi dell’olio di palma, quali ad esempio la presenza di composti antiossidanti, di provitamina A ed E, del coenzima Q10 (ubiquinone) e del β-carotene.
In definitiva, è vero che da un lato, specialmente agli inizi, non si valutava a pieno il rapporto costi-benefici, in particolare relativo agli impatti ecologici, ecosistemici e sull’ambiente più in generale; ma è anche vero che dall’altro lato l’economia, che ha mosso e muove questo genere di produzioni, non sempre ha la convenienza di fare delle analisi accurate in questo senso.
Nel medesimo discorso non è da dimenticare anche l’impatto sociale e sull’economia delle popolazioni delle zone in cui l’olio di palma è il re delle produzioni, alimentari e non.
Per il discorso alimentare, invece, esulando da una esclusione totale di un prodotto che di per sé non è tossico o pericoloso, un cosciente utilizzo è valutato nel modo di impego e nelle dosi, sempre ricordando che l’alimentazione va fatta rapportare ad uno stile di vita sano, in senso più ampio. Chi punta inesorabilmente il dito contro questo prodotto usato come ingrediente alimentare guarda unicamente gli aspetti negativi del prodotto stesso (da quelli nutrizionistico-medici, a quelli ecologici ecc.), quasi dimenticando che ve ne sono di positivi. Chi invece non vede quale sia il problema dell’utilizzo di questi oli (in senso lato) forse dimentica che esiste un impatto (di Ecologial Footprint – fra cui la perdita di biodiversità, l’aumento di deforestazione –, di Carbon Footprint ecc.) che inevitabilmente un prodotto derivato da economie di larga scala può avere.
In realtà solo un bilancio olistico del sistema potrà portare alla chiave di lettura corretta del sistema stesso; essendo però un sistema molto ricco e complesso, il bilancio detto è ancora quasi irrealizzabile.
Concordo sul fatto che in certe occasioni si sia cominciato a demonizzare un prodotto, e quindi tutto in un colpo venga messo al centro di mille accuse.
Mi viene in mente in caso del burro, tanto criticato dal punto di vista dell’aumento del colesterolo LDL che può provocare, ma come dice Davide tutte le cose vanno viste nell’insieme, valutate per la loro giusta quantità e nella varietà della dieta. Il livello qualitativo organolettico del burro è indiscutibile, allora grassi saturi per grassi saturi non è bene anche valutare la qualità gastronomica dei prodotti ? (sempre nell’ambito di una dieta bilanciata e variegata).
Detto questo, abbandonando l’aspetto alimentare dell’olio di palma, sono comunque rimasto impressionato relativamente alla presa di posizione dell’ United States Environmental Protection Agency (EPA).
Il burro è il rappresentante di una tradizione storica specialmente in diverse aree italiane (come per il nord d’Italia), essendo la sua produzione legata alle lavorazioni di formaggi “storici” come i due Grana.
Vi sono diverse “tipologie” di burro che (salvo alcuni casi particolari) contengono un 80-85% di grasso (con un acqua che deve restare al di sotto del 16 %). Gli acidi grassi saturi determinano lo stato solido del burro (con contenuti dei saturi che possono talora superare il 50 %) a temperatura ambiente; lo stesso vale per l’olio di palma lavorato (i cui livelli di acido palmitico possono raggiungere valori attorno al 45 %, con un 5 % di acido stearico e quantitativi inferiori del laurico; molto rappresentati fra gli acidi grassi sono anche il monoinsaturo oleico – dal 35 al 40 % – e il di-insaturo linoleico – 8-11 % ca.).
La composizione in acidi grassi tra i due prodotti alimentari varia anche considerevolmente, ma i livelli degli insaturi restano pur sempre alti. Pur condividendo con l’olio di palma l’elevato rapporto di acidi grassi saturi, il burro conferisce agli alimenti caratteristiche organolettiche interessanti, diversamente dal primo. Il valore aggiunto derivato dal burro non è eguagliato dall’olio di palma (che, al contrario, è apprezzato in molte ricette per il suo scarso impatto sull’aroma degli alimenti in cui rientra fra gli ingredienti).
Fra le caratteristiche positive dell’olio di palma nella cucina non vanno però dimenticati il suo alto punto di fumo, la maggior conservabilità degli alimenti in cui è ingrediente, la lavorabilità (simile a quella del burro, ma a discrezione delle diverse ricette) e il suo basso costo.
Rimane quindi da scegliere quale dei prodotti utilizzare, restando nell’intorno delle dosi “consentite”. In base alle necessità viene giustificato l’impiego dell’uno o dell’altro; se per prodotti industriali aventi ampio commercio (anche internazionale) si adopera l’olio di palma, per ricette domestiche o prodotti di nicchia il burro può essere il preferito.
Uscendo dall’ambito alimentare, e rispondendo a Luca, vorrei sottolineare brevemente l’aspetto della perdita di biodiversità legato alle coltivazioni di olio di palma (avendo già fatto nel documento la premessa che, anche su questo punto, le opinioni scientifiche non sono univoche).
In particolare, al punto “3)” (rapporto FAO del 2007) viene sottolineata la perdita delle foreste pluviali nelle aree interessante, e la perdita di biodiversità. Va precisato che la biodiversità (sotto tutti i suoi livelli, da quella animale, alla vegetale e così via) delle aree delle foreste tropicali non è ancora conosciuta come quella delle altre macroaree del Pianeta. Alcune stime riportano una mancanza di conoscenze molto alta, tanto che pare che manchino ancora da scoprire almeno l’80 % delle specie presenti. Ebbene, la perdita di biodiversità in quelle aree (causata dalla deforestazione e annessi)significa anche la perdita di tutto quel patrimonio genetico ancora non conosciuto, oltre che quello conosciuto: l’uomo non può che avere solo una stima di ciò che sta eliminando più o meno indirettamente. Gli impatti dell’uomo sono pertanto molto rilevanti, da questo punto di vista. Non si può infine non ricordare che la perdita di una specie è definitiva, “non si può tornare indietro”. Anche da questo si giustifica la decisione pubblicata nel rapporto FAO del 2007 (https://www.fao.org/docrep/009/a0773e/a0773e00.htm).
Possiamo discutere, giustamente, quanto vogliamo sul fatto che l’olio di palma faccia male alla salute o, al contrario, possa fare addirittura bene alla salute.
Resta il fatto che se le multinazionali (perché è di esse che si tratta)hanno deciso di standardizzare la formulazione degli ingredienti includendo l’olio di palma in ogni preparazione industriale, noi possiamo farci ben poco.
Prima dell’avvento dell’olio di palma, negli ingredienti compariva la margarina, che veniva criticata perché sottoposta trattamento di idrogenazione al fine di saturare, quindi solidificare, la miscela di oli di cui è costituita, (tra i quali spicca l’olio di palma!) e la conseguente formazione dei dannosi grassi idrogenati trans.
Io sono convinto che in ambito alimentare, per un qualsiasi ingrediente o prodotto, valga il principio secondo cui “è la dose che fa il veleno”.
Detto questo, secondo me è sempre meglio il prodotto comprato dal fornaio sotto casa che quello industriale confezionato dalle multinazionali e reperibile nella GDO.
Per quello che riguarda il tornare all’acquisto dei prodotti fatti direttamente dall’artigiano come può essere il fornaio o comunque l’acquisto diretto dai contadini che sta ultimamente prendendo piede e interesse nell’opinione pubblica sono abbastanza d’accordo, sicuramente acquistare i prodotti agricoli vicino a casa direttamente dall’agricoltore ha un buon impatto sul sistema economico delle aziende agricole , dovrebbe dare fiducia al consumatore che conosce direttamente chi produce frutta e verdura, riduce enormemente i costi di trasporto e di imballo ( anche ambientali).
Cambiando un attimo argomento volevo passare alla parte del lavoro di Davide relativa alla produzione di lipidi tramite colture di microrganismi, che mi pare di aver capito possa essere fatta in colture anche a temperatura ambiente nei paesi del nord Europa, e questo già è una buona cosa nel ridurre il dispendio energetico per produrre lipidi con questo sistema, volevo capire in pochi numeri ( se possibile) quale fosse l’effettiva resa in termini di acidi grassi ottenuti rispetto a un certo quantitativo o volume di coltura in un determinato tempo.
Ho fatto una ricerca e ho trovato che da test di laboratorio condotti da alcuni ricercatori presso l‘Università di Bath con M. pulcherrima si è riusciti a ricavare 20 g di olio da 1 litro di materiale in fermentazione.
In merito alle curiosità di Paolo, lo studio di Santomauro e colleghi ha riportato valori interessanti e in diverse condizioni di crescita valutate (ripeto quanto accennato nel documento per maggior chiarezza relativamente all’articolo che ho valutato: lo studio è stato pubblicato nel 2014 con un errore nel nome del primo autore, pertanto può essere trovato come “Santamauro” e colleghi; la rivista – Biotechnology for Biofuels – ha poi prontamente pubblicato la correzione del nome dell’Autore).
Nello studio detto è riportata la possibilità di coltivazione a “temperatura ambiente”, riferendosi ad una maggiore efficienza a temperature medio-basse (riscontrabili ad esempio nei Paesi del Nord Europa).
La valutazione è stata eseguita in serre a temperatura controllata per la maggior attendibilità e ripetibilità dai risultati. Sono forniti diversi dati nel lavoro, anche se altri dati non sono stati riportati (verosimilmente per via delle restrizioni derivate dall’aver brevettato il processo – ancora una volta l’economia mette le mani anche sulla scienza!).
Riassumendo brevemente alcuni dei punti chiave:
– l’acidità di crescita della coltura è alta (il pH può variare da 3 a 4, in generale, anche con punte eventuali più alte, che però portano maggiori rischi di inquinamento da organismi non desiderati). Si ricorda che la maggior quantità di biomassa ottenibile si ha con un pH di partenza attorno a 5, e che variazioni di pH del mezzo durante la crescita non impattano negativamente sulla produzione (resta attorno ai 5 g/L se in condizioni non ottimali);
– la potenzialità nella manipolazione dei parametri può permettere il raggiungimento di concentrazioni di lipidi (nelle cellule “pulcherrima transizionali”) anche oltre al 40 % – in prevalenza con ottimizzazioni di pH e temperature;
– le temperature possono variare a seconda della fase di crescita della coltura di lieviti, ma in generale sono riassumibili nel range dai 15 ai 20°C. A queste temperature si raggiungono valori di sostanza secca di circa 6 g/L. La più alta produzione di lipidi è stata osservata a 15°C (con un 26 % di concentrazione lipidica per cellula). Nello studio vengono sperimentate anche colture cosiddette “ottimizzate” (per tutti i loro parametri regolabili), che producono fino a 7 g/L di resa;
– il modello impiegato giustifica l’utilizzo di vasche da 500 L, con movimentazione lieve (utilizzo di pale) del pabulum; possibilità di installazione anche “all’aperto”, con tempi di sviluppo di circa un mese;
– l’inoculo iniziale è di 500 mg di M. pulcherrima, agitate come detto.
Il metodo dimostra un’alta elasticità sia per le condizioni di crescita che per i componenti starter (si veda anche il documento da me elaborato); le rese variano anche in base a questi parametri, rimanendo in genere alquanto alte.
Dall’applicazione del metodo riporto qui di seguito le caratteristiche della biomassa e dei lipidi ottenuti dalla crescita di M. pulcherrima nei vasconi:
– biomassa: 2.06 g/L
– lipidi: 34 % del peso
– ACIDI GRASSI (scritti in formulazione X:Y, dove “X” rappresenta il n. di atomi di Carbonio nella catena, “Y” il livello di doppi legami):
– 14:0 < 1 %
– 15:0 < 1 %
– 16:0 = 20-21 %
– 16:1 = 6-8 %
– 17:0 = 1 %
– 18:0 = 4 %
– 18:1 = 50 %
– 18:2 = 10-11 %
– 18:3 = 5-7 %
– 19:0 < 1 %
– 21:0 < 1 %
Come si può notare sono preponderanti gli acidi grassi a lunga catena monoinsaturi (in particolare) e di-insaturi, con anche una buona percentuale (più del 20 %) di grassi saturi.
In effetti da questi numeri si vede come in termini quali-quantitativi i lipidi che si ottengono sono interessanti, e comparabili con quelli ottenuti dalla palma da olio.
Particolare rilievo darei al fatto che in idonee località i processi biologici per ottenere i lipidi dai microrganismi possono avvenire a temperatura ambiente, e quindi senza l’impiego di ulteriore energia per mantenere temperature o pressioni particolari ( appetto fondamentale per una chimica con sintesi efficiente dal punto di vista energetico).
Rimane invece il fatto, come tu stesso accennavi, della problematica dello smaltimento dei residui colturali una volta estratti i grassi, che potrebbe diventare un aspetto rilevante con una produzione su grande scala.
L’ideale sarebbe trovare soluzioni che permettano di creare un ciclo di vita allargato per la produzione di lipidi da attività fermentativa in modo che un problema di residui e rifiuti possa diventare una ulteriore input utilizzabile in altre produzioni.
Vorrei tornare un attimo sul discorso dell’impatto ambientale della coltivazione della palma da olio, e nello specifico per quello che riguarda la deforestazione. Sotto riporto un estratto da un articolo di Fabio Balocco (ambientalista e avvocato)
” Insieme all’industria del legno, quella dell’olio di palma è la maggiore responsabile della deforestazione nel sud-est asiatico, in particolare Malesia ed Indonesia. Tra il 2000 ed il 2012 l’Indonesia ha perso 6,02 milioni di ettari di foresta tropicale (60.000 chilometri quadrati), un’area grande all’incirca come la superficie dell’intera Irlanda. E nel 2012 la deforestazione ha colpito ben 840mila ettari contro i 460mila del Brasile. E la principale causa di tutto questo si chiama olio di palma.”
Quindi se è pur vero che le piantagioni di palma da olio permangono per alcuni decenni (e quindi immagazzinano anche un certo quantitativo di carbonio), direi che rimane il fatto della perdita di superfici enormi che rappresentano comunque un habitat specifico per tantissime specie, e soprattutto, alla fine della coltivazione della palma da olio i terreni in che condizioni di uso e di fertilità rimangono?
Hai presentato un altro caso in cui diventa difficile fare affermazioni scientificamente provate a giustificare la coltivazione o meno delle palme da olio.
Gli ettari persi non sono da sottovalutare, questi numeri parlano chiaro.
Da coltura poliennale (con durata anche di un trentennio, generalmente di 20-22 anni), la crescita data dalla fissazione del carbonio può essere valutata come credito nei confronti del gas serra anidride carbonica. Con la deforestazione si alza il livello di debito di CO2, ma con la crescita delle palme si torna a parlare di credito. Con una valutazione, ancora empirica, relativa al bilancio debiti-crediti si può affermare che non sempre il credo soddisfa il debito. In primo luogo la coltivazione della maggior parte delle colture che conosciamo, senza esclusione della palma da olio, prevede una eliminazione delle infestanti (anche pesante) (ricordo che una pianta infestante è una pianta che non riveste alcuna funzione ritenuta “utile” per la produzione agricola, danneggiando o entrando in competizione – o parassitizzando – la stessa). Diversamente dall’ecosistema naturale (pre-deforestazione), un campo (piantagione) di palme da olio presenta poche altre specie vegetali, spesso specie pioniere. Non ho dati precisi sulla situazione del suolo dopo una coltivazione di palme da olio, però in un ecosistema naturale le specie presenti tendono, specialmente allo stadio di climax, ad occupare tutte le possibili nicchie (si badi bene: anche trofiche e spaziali!) a disposizione; nell’agroecosistema di palme da olio sono presenti in prevalenza queste ultime (le palme), piantate a distanza ottimale per l’efficienza e la resta di coltivazione (studi valutano un sesto ottimale con 143 piante per ettaro), senza la presenza di altre essenze nelle nicchie ecologiche lasciate libere. Oltretutto, pur crescendo bene in quegli ambienti, è verosimile che le continue asportazioni del materiale prodotto (i frutti della palma) provochino a lungo andare un impoverimento di alcuni elementi necessari nel suolo. Gli ambienti di coltivazione in generale non prevedono (e, anche, non possono permettersi dal punto di vista economico, talvolta) apporti di concimazioni pari a quelle delle nostre realtà agricole (europee). Sono però previste, in sistemi performanti di coltivazione, delle concimazioni (verso la fine del periodo delle piogge) in ragione di 250-500 grammi per pianta di solfato d’ammonio, e 250 grammi per pianta di cloruro di potassio (nel periodo dopo la piantumazione). Non è solo la deforestazione il problema, ma come accennavi anche te incide molto l’uso del suolo deforestato. Un impoverimento del suolo è valutato per la produzione stessa, ma non in relazione al ritorno a ecosistemi naturali (anche perché non vi è previsione di ritorno). Nei casi eventuali di rinaturalizzazione, per quanto visto e per via dello sfruttamento dei suoli, potrebbero servire anche diversi anni o, alla peggio, secoli prima del raggiungimento delle qualità del suolo originario, in primis della sostanza organica. In un ecosistema naturale non c’è l’operatore che elimina i rami morti e preleva in continuazione i frutti della palma, come non ci sono solo palme da olio in produzione con una genetica e un impianto volto alla massimizzazione delle rese.
I temi di cui si sta trattando non sono comunque stati sottovalutati dai grandi Paesi, tanto che nel 2004 è stato istituito il cosiddetto RSPO (Roundtable on Sustaineble Palm Oil), che ad oggi certifica il 20 % delle coltivazioni di palme da olio, con 2.58 milioni di ettari valutati fino ad ora nel 2015. Si tratta di una non-profit che unisce gli stakeholder da 7 settori della produzione di olio di palma (produttori, processori o commercianti, produttori di beni di consumo, dettaglianti, investitori e banche, organizzazioni sociali ed ambientali non governative – ONG).
I suoli sfruttati per questa coltivazione sono stati rubati alle foreste pluviali tropicali, che cercano sempre di “riprenderseli”, ma difficilmente torneranno, almeno nel breve e medio periodo, alle condizioni di “naturalità” originarie.
Per quanto riguarda invece il discorso sulle specie animali, al di là di quelle trattate e divenute anche simbolo della deforestazione per l’olio di palma (ad esempio l’orango), è verosimile che la fauna locale cambi, all’interno delle coltivazioni stesse (anzi: è sicuro). Come accennato nel documento, però, gli studi non presentano una univocità di dati, tanto che per certe specie (già presenti, s’intende) è possibile registrare un declino in corrispondenza delle piantagioni, mentre per altre un incremento del loro sviluppo o quantomeno una stabilità nella loro presenza.
Gli impatti di questa coltivazione sono diversi, e una corretta valutazione è ancora attesa in gran parte delle piantagioni oggi presenti nelle aree interessate.
La discussione è stata molto interessante e Davide ha fornito diverse testimonianze a difesa delle sue riflessioni.
Il mio punto di vista è che dobbiamo differenziare le situazioni produttive ed i contesti geografici e sociali. E’ questo che determina impatti diversi. In Indonesia come in Sud America lo sviluppo sociale indotto dall’agricoltura è fondamentale ma è necessario avere una coltivazione sostenibile. Per poter sfruttare meno le risorse è necessario avere tecnologie d’intensificazione sostenibile (la palma è già una coltura molto più produttiva rispetto alle altre oleaginose e quindi richiede a parità di produzione meno suolo).
L’entità della forestazione deve essere proporzionale ai benefici ambientali e questo comporta che in alcune zone deve essere interrotta mentre in altre zone può essere condotta nel rispetto della biodiversità e dei benefici ambientali.
Ecco perché è importante che tutte le produzioni siano certificate e tracciabili perché questo rappresenta una garanzia etica di comportamenti imprenditoriali.
Vi allego della documentazione di dettaglio per il vostro interesse. E’ del materiale che ho raccolto di recente in un convegno a cui ho partecipato a giugno dove ho tenuto una relazione sulla sostenibilità della coltura di palma da olio (vedi documenti allegati). Dobbiamo riflettere su quello che abbiamo fatto nei nostri territori, la Pianura Padana, oggi agricoltura intensiva ma in passato palude e boschi. Grazie a quella trasformazione – storica – tanta ricchezza è stata creata rendendola una delle aree più produttive d’Europa. Sono stati creati paesaggi protetti dall’UNESCO (pensiamo alle LAnghe) e anche biodiversità (la risicoltura è oggi custode di più di 1/3 della biodiversità globale dei nostri territori ma prima non c’era!). Nei nostri territori e in quelli lontani dobbiamo riflettere su come essere custodi – quindi coltivando – senza sperperare le risorse – quindi sostenibili – realizzando un atto sociale in termini di sicurezza alimentare – quindi intensivi.
Vi allego della documentazione di dettaglio per il vostro interesse.
La prima cosa che mi è venuta in mente leggendo questo elaborato, è come l’olio di palma abbia avuto un boom di utilizzo nell’industria alimentare, e adesso si stia facendo una forte sterzata nei confronti dell’uso di questo olio da diverse parti, anche a seguito di una opinione pubblica che sta puntando il dito contro questo prodotto. Solo ultimamente si fa un gran parlare dell’olio di palma nei principali prodotti alimentari ( ad esempio i prodotti da forno) e delle problematiche ad esso legate, segno che comunque in via preliminare a un così massiccio utilizzo all’olio di palma , non si sia fatta preliminarmente una analisi complessiva benefici/costi ( sempre che gli aspetti negativi che adesso vengono portati alla luce, siano effettivi).
Considerando i seguenti punti:
1) per favorire la diffusione delle piantagioni di palma da olio, nei principali Paesi produttori (Malesia e Indonesia) si procede al disboscamento di intere foreste pluviali, il che ha determinato un rilevante danno ambientale che fa dell’Indonesia il terzo emittente mondiale di gas serra;
2) secondo il rapporto congiunto della Banca Mondiale e del Governo britannico, il disboscamento indonesiano sarebbe responsabile del rilascio in atmosfera di 2,563 MtCO2e (milioni di tonnellate equivalenti di biossido di carbonio);
3) secondo il rapporto quinquennale FAO sulle foreste del 2007, l’Indonesia perderebbe un milione di ettari all’anno di foreste pluviali, con conseguente estinzione di specie autoctone protette;
4) la mancanza dell’intenso fenomeno di evapotraspirazione connesso alla distruzione della copertura forestale causa una variazione del regime pluviometrico a scala sovranazionale, rischiando di compromettere anche l’andamento della produttività dei suoli agricoli.
Ecco che cosa ha concluso la United States Environmental Protection Agency (EPA):
– è da escludere il biodiesel da olio di palma dai combustibili ecologici, proprio perché l’impronta di carbonio derivante dalla sua produzione non permette la riduzione del 20 per cento richiesta per le emissioni dei biocarburanti.
È probabilmente vero che non sia stata fatta un’ampia e corretta analisi preliminare dei costi-benefici, in particolar modo nei primi anni in cui iniziava a dilagare la coltivazione delle palme da olio anche in Paesi in cui questa non era presente (e già dagli inizi del ‘900).
Sicuramente si tratta di un tema molto delicato sotto innumerevoli aspetti, specialmente oggi che è molto dibattuto, tanto che ha meritato e merita una ricerca scientifica seria e approfondita; la ricerca deve essere supportata sia per l’impiego nell’alimentazione umana (con le problematiche ad esso legate), sia nel campo sociale ed etico, ma anche nei campi ecologici e biologici legati agli ecosistemi e all’ambiente. È bene far notare che l’attendibilità di una ricerca scientifica dovrebbe essere alta, anche se questa può effettivamente cambiare in base al metodo e all’argomento trattato. Un approccio scientifico implica una oggettività dei risultati, che contemporaneamente devono essere verificabili e ripetibili, oltre che affidabili, onesti e condivisibili. Gli studi sugli aspetti biologici implicano in questi casi studi di biochimica, con limitazioni talvolta dell’attendibilità specialmente quando si ragiona a “grandi sistemi” come nel caso degli approcci ecologici.
Per l’aspetto più olistico di un’analisi costi-benefici, come riportato anche nel documento, è difficile dare un parere univoco per via delle opinioni contrastanti che ci riporta il materiale scientifico. E’ importante valutare le reali incidenze dei diversi aspetti negativi, anche con ulteriori studi, per analisi di LCA (Life Cycle Assessment) in tutti i punti chiave del sistema. Ma questo non è facile.
Dall’altra parte è anche vero che il mercato che si è instaurato ha visto un immenso sviluppo dei guadagni, ed è facile intuire quale sia il peso del dio denaro anche sulla ricerca (fatta o… non fatta!).
La sensibilizzazione del consumatore di prodotti alimentari è aumentata negli ultimi anni, e prodotti come questo, sono stati spesso colpevolizzati. Per certi aspetti, non c’è dubbio, eccessi di olio di palma come alimento (o, meglio, come ingrediente) possono provocare danni alla salute umana.
È però bene non demonizzare a priori un prodotto, o un sistema. Nell’ambito dell’alimentazione umana sono state riportate diverse opinioni, anche nella letteratura scientifica, talvolta poi smentite (come per la cancerogenicità ipotizzata dell’olio di palma) o accettate (nel caso ad esempio dell’insorgenza del diabete e dell’impatto sul colesterolo LDL – il cosiddetto “cattivo”). Sono chiari gli effetti di un elevato consumo alimentare di acidi grassi saturi, ma questo vale sia per l’olio di palma che per gli atri alimenti che li contengono, anche in diversi rapporti. Molto spesso vengono ignorati gli aspetti positivi dell’olio di palma, quali ad esempio la presenza di composti antiossidanti, di provitamina A ed E, del coenzima Q10 (ubiquinone) e del β-carotene.
In definitiva, è vero che da un lato, specialmente agli inizi, non si valutava a pieno il rapporto costi-benefici, in particolare relativo agli impatti ecologici, ecosistemici e sull’ambiente più in generale; ma è anche vero che dall’altro lato l’economia, che ha mosso e muove questo genere di produzioni, non sempre ha la convenienza di fare delle analisi accurate in questo senso.
Nel medesimo discorso non è da dimenticare anche l’impatto sociale e sull’economia delle popolazioni delle zone in cui l’olio di palma è il re delle produzioni, alimentari e non.
Per il discorso alimentare, invece, esulando da una esclusione totale di un prodotto che di per sé non è tossico o pericoloso, un cosciente utilizzo è valutato nel modo di impego e nelle dosi, sempre ricordando che l’alimentazione va fatta rapportare ad uno stile di vita sano, in senso più ampio. Chi punta inesorabilmente il dito contro questo prodotto usato come ingrediente alimentare guarda unicamente gli aspetti negativi del prodotto stesso (da quelli nutrizionistico-medici, a quelli ecologici ecc.), quasi dimenticando che ve ne sono di positivi. Chi invece non vede quale sia il problema dell’utilizzo di questi oli (in senso lato) forse dimentica che esiste un impatto (di Ecologial Footprint – fra cui la perdita di biodiversità, l’aumento di deforestazione –, di Carbon Footprint ecc.) che inevitabilmente un prodotto derivato da economie di larga scala può avere.
In realtà solo un bilancio olistico del sistema potrà portare alla chiave di lettura corretta del sistema stesso; essendo però un sistema molto ricco e complesso, il bilancio detto è ancora quasi irrealizzabile.
Concordo sul fatto che in certe occasioni si sia cominciato a demonizzare un prodotto, e quindi tutto in un colpo venga messo al centro di mille accuse.
Mi viene in mente in caso del burro, tanto criticato dal punto di vista dell’aumento del colesterolo LDL che può provocare, ma come dice Davide tutte le cose vanno viste nell’insieme, valutate per la loro giusta quantità e nella varietà della dieta. Il livello qualitativo organolettico del burro è indiscutibile, allora grassi saturi per grassi saturi non è bene anche valutare la qualità gastronomica dei prodotti ? (sempre nell’ambito di una dieta bilanciata e variegata).
Detto questo, abbandonando l’aspetto alimentare dell’olio di palma, sono comunque rimasto impressionato relativamente alla presa di posizione dell’ United States Environmental Protection Agency (EPA).
Il burro è il rappresentante di una tradizione storica specialmente in diverse aree italiane (come per il nord d’Italia), essendo la sua produzione legata alle lavorazioni di formaggi “storici” come i due Grana.
Vi sono diverse “tipologie” di burro che (salvo alcuni casi particolari) contengono un 80-85% di grasso (con un acqua che deve restare al di sotto del 16 %). Gli acidi grassi saturi determinano lo stato solido del burro (con contenuti dei saturi che possono talora superare il 50 %) a temperatura ambiente; lo stesso vale per l’olio di palma lavorato (i cui livelli di acido palmitico possono raggiungere valori attorno al 45 %, con un 5 % di acido stearico e quantitativi inferiori del laurico; molto rappresentati fra gli acidi grassi sono anche il monoinsaturo oleico – dal 35 al 40 % – e il di-insaturo linoleico – 8-11 % ca.).
La composizione in acidi grassi tra i due prodotti alimentari varia anche considerevolmente, ma i livelli degli insaturi restano pur sempre alti. Pur condividendo con l’olio di palma l’elevato rapporto di acidi grassi saturi, il burro conferisce agli alimenti caratteristiche organolettiche interessanti, diversamente dal primo. Il valore aggiunto derivato dal burro non è eguagliato dall’olio di palma (che, al contrario, è apprezzato in molte ricette per il suo scarso impatto sull’aroma degli alimenti in cui rientra fra gli ingredienti).
Fra le caratteristiche positive dell’olio di palma nella cucina non vanno però dimenticati il suo alto punto di fumo, la maggior conservabilità degli alimenti in cui è ingrediente, la lavorabilità (simile a quella del burro, ma a discrezione delle diverse ricette) e il suo basso costo.
Rimane quindi da scegliere quale dei prodotti utilizzare, restando nell’intorno delle dosi “consentite”. In base alle necessità viene giustificato l’impiego dell’uno o dell’altro; se per prodotti industriali aventi ampio commercio (anche internazionale) si adopera l’olio di palma, per ricette domestiche o prodotti di nicchia il burro può essere il preferito.
Uscendo dall’ambito alimentare, e rispondendo a Luca, vorrei sottolineare brevemente l’aspetto della perdita di biodiversità legato alle coltivazioni di olio di palma (avendo già fatto nel documento la premessa che, anche su questo punto, le opinioni scientifiche non sono univoche).
In particolare, al punto “3)” (rapporto FAO del 2007) viene sottolineata la perdita delle foreste pluviali nelle aree interessante, e la perdita di biodiversità. Va precisato che la biodiversità (sotto tutti i suoi livelli, da quella animale, alla vegetale e così via) delle aree delle foreste tropicali non è ancora conosciuta come quella delle altre macroaree del Pianeta. Alcune stime riportano una mancanza di conoscenze molto alta, tanto che pare che manchino ancora da scoprire almeno l’80 % delle specie presenti. Ebbene, la perdita di biodiversità in quelle aree (causata dalla deforestazione e annessi)significa anche la perdita di tutto quel patrimonio genetico ancora non conosciuto, oltre che quello conosciuto: l’uomo non può che avere solo una stima di ciò che sta eliminando più o meno indirettamente. Gli impatti dell’uomo sono pertanto molto rilevanti, da questo punto di vista. Non si può infine non ricordare che la perdita di una specie è definitiva, “non si può tornare indietro”. Anche da questo si giustifica la decisione pubblicata nel rapporto FAO del 2007 (https://www.fao.org/docrep/009/a0773e/a0773e00.htm).
Possiamo discutere, giustamente, quanto vogliamo sul fatto che l’olio di palma faccia male alla salute o, al contrario, possa fare addirittura bene alla salute.
Resta il fatto che se le multinazionali (perché è di esse che si tratta)hanno deciso di standardizzare la formulazione degli ingredienti includendo l’olio di palma in ogni preparazione industriale, noi possiamo farci ben poco.
Prima dell’avvento dell’olio di palma, negli ingredienti compariva la margarina, che veniva criticata perché sottoposta trattamento di idrogenazione al fine di saturare, quindi solidificare, la miscela di oli di cui è costituita, (tra i quali spicca l’olio di palma!) e la conseguente formazione dei dannosi grassi idrogenati trans.
Io sono convinto che in ambito alimentare, per un qualsiasi ingrediente o prodotto, valga il principio secondo cui “è la dose che fa il veleno”.
Detto questo, secondo me è sempre meglio il prodotto comprato dal fornaio sotto casa che quello industriale confezionato dalle multinazionali e reperibile nella GDO.
Per quello che riguarda il tornare all’acquisto dei prodotti fatti direttamente dall’artigiano come può essere il fornaio o comunque l’acquisto diretto dai contadini che sta ultimamente prendendo piede e interesse nell’opinione pubblica sono abbastanza d’accordo, sicuramente acquistare i prodotti agricoli vicino a casa direttamente dall’agricoltore ha un buon impatto sul sistema economico delle aziende agricole , dovrebbe dare fiducia al consumatore che conosce direttamente chi produce frutta e verdura, riduce enormemente i costi di trasporto e di imballo ( anche ambientali).
Cambiando un attimo argomento volevo passare alla parte del lavoro di Davide relativa alla produzione di lipidi tramite colture di microrganismi, che mi pare di aver capito possa essere fatta in colture anche a temperatura ambiente nei paesi del nord Europa, e questo già è una buona cosa nel ridurre il dispendio energetico per produrre lipidi con questo sistema, volevo capire in pochi numeri ( se possibile) quale fosse l’effettiva resa in termini di acidi grassi ottenuti rispetto a un certo quantitativo o volume di coltura in un determinato tempo.
Ho fatto una ricerca e ho trovato che da test di laboratorio condotti da alcuni ricercatori presso l‘Università di Bath con M. pulcherrima si è riusciti a ricavare 20 g di olio da 1 litro di materiale in fermentazione.
In merito alle curiosità di Paolo, lo studio di Santomauro e colleghi ha riportato valori interessanti e in diverse condizioni di crescita valutate (ripeto quanto accennato nel documento per maggior chiarezza relativamente all’articolo che ho valutato: lo studio è stato pubblicato nel 2014 con un errore nel nome del primo autore, pertanto può essere trovato come “Santamauro” e colleghi; la rivista – Biotechnology for Biofuels – ha poi prontamente pubblicato la correzione del nome dell’Autore).
Nello studio detto è riportata la possibilità di coltivazione a “temperatura ambiente”, riferendosi ad una maggiore efficienza a temperature medio-basse (riscontrabili ad esempio nei Paesi del Nord Europa).
La valutazione è stata eseguita in serre a temperatura controllata per la maggior attendibilità e ripetibilità dai risultati. Sono forniti diversi dati nel lavoro, anche se altri dati non sono stati riportati (verosimilmente per via delle restrizioni derivate dall’aver brevettato il processo – ancora una volta l’economia mette le mani anche sulla scienza!).
Riassumendo brevemente alcuni dei punti chiave:
– l’acidità di crescita della coltura è alta (il pH può variare da 3 a 4, in generale, anche con punte eventuali più alte, che però portano maggiori rischi di inquinamento da organismi non desiderati). Si ricorda che la maggior quantità di biomassa ottenibile si ha con un pH di partenza attorno a 5, e che variazioni di pH del mezzo durante la crescita non impattano negativamente sulla produzione (resta attorno ai 5 g/L se in condizioni non ottimali);
– la potenzialità nella manipolazione dei parametri può permettere il raggiungimento di concentrazioni di lipidi (nelle cellule “pulcherrima transizionali”) anche oltre al 40 % – in prevalenza con ottimizzazioni di pH e temperature;
– le temperature possono variare a seconda della fase di crescita della coltura di lieviti, ma in generale sono riassumibili nel range dai 15 ai 20°C. A queste temperature si raggiungono valori di sostanza secca di circa 6 g/L. La più alta produzione di lipidi è stata osservata a 15°C (con un 26 % di concentrazione lipidica per cellula). Nello studio vengono sperimentate anche colture cosiddette “ottimizzate” (per tutti i loro parametri regolabili), che producono fino a 7 g/L di resa;
– il modello impiegato giustifica l’utilizzo di vasche da 500 L, con movimentazione lieve (utilizzo di pale) del pabulum; possibilità di installazione anche “all’aperto”, con tempi di sviluppo di circa un mese;
– l’inoculo iniziale è di 500 mg di M. pulcherrima, agitate come detto.
Il metodo dimostra un’alta elasticità sia per le condizioni di crescita che per i componenti starter (si veda anche il documento da me elaborato); le rese variano anche in base a questi parametri, rimanendo in genere alquanto alte.
Dall’applicazione del metodo riporto qui di seguito le caratteristiche della biomassa e dei lipidi ottenuti dalla crescita di M. pulcherrima nei vasconi:
– biomassa: 2.06 g/L
– lipidi: 34 % del peso
– ACIDI GRASSI (scritti in formulazione X:Y, dove “X” rappresenta il n. di atomi di Carbonio nella catena, “Y” il livello di doppi legami):
– 14:0 < 1 %
– 15:0 < 1 %
– 16:0 = 20-21 %
– 16:1 = 6-8 %
– 17:0 = 1 %
– 18:0 = 4 %
– 18:1 = 50 %
– 18:2 = 10-11 %
– 18:3 = 5-7 %
– 19:0 < 1 %
– 21:0 < 1 %
Come si può notare sono preponderanti gli acidi grassi a lunga catena monoinsaturi (in particolare) e di-insaturi, con anche una buona percentuale (più del 20 %) di grassi saturi.
In effetti da questi numeri si vede come in termini quali-quantitativi i lipidi che si ottengono sono interessanti, e comparabili con quelli ottenuti dalla palma da olio.
Particolare rilievo darei al fatto che in idonee località i processi biologici per ottenere i lipidi dai microrganismi possono avvenire a temperatura ambiente, e quindi senza l’impiego di ulteriore energia per mantenere temperature o pressioni particolari ( appetto fondamentale per una chimica con sintesi efficiente dal punto di vista energetico).
Rimane invece il fatto, come tu stesso accennavi, della problematica dello smaltimento dei residui colturali una volta estratti i grassi, che potrebbe diventare un aspetto rilevante con una produzione su grande scala.
L’ideale sarebbe trovare soluzioni che permettano di creare un ciclo di vita allargato per la produzione di lipidi da attività fermentativa in modo che un problema di residui e rifiuti possa diventare una ulteriore input utilizzabile in altre produzioni.
Vorrei tornare un attimo sul discorso dell’impatto ambientale della coltivazione della palma da olio, e nello specifico per quello che riguarda la deforestazione. Sotto riporto un estratto da un articolo di Fabio Balocco (ambientalista e avvocato)
” Insieme all’industria del legno, quella dell’olio di palma è la maggiore responsabile della deforestazione nel sud-est asiatico, in particolare Malesia ed Indonesia. Tra il 2000 ed il 2012 l’Indonesia ha perso 6,02 milioni di ettari di foresta tropicale (60.000 chilometri quadrati), un’area grande all’incirca come la superficie dell’intera Irlanda. E nel 2012 la deforestazione ha colpito ben 840mila ettari contro i 460mila del Brasile. E la principale causa di tutto questo si chiama olio di palma.”
Quindi se è pur vero che le piantagioni di palma da olio permangono per alcuni decenni (e quindi immagazzinano anche un certo quantitativo di carbonio), direi che rimane il fatto della perdita di superfici enormi che rappresentano comunque un habitat specifico per tantissime specie, e soprattutto, alla fine della coltivazione della palma da olio i terreni in che condizioni di uso e di fertilità rimangono?
Hai presentato un altro caso in cui diventa difficile fare affermazioni scientificamente provate a giustificare la coltivazione o meno delle palme da olio.
Gli ettari persi non sono da sottovalutare, questi numeri parlano chiaro.
Da coltura poliennale (con durata anche di un trentennio, generalmente di 20-22 anni), la crescita data dalla fissazione del carbonio può essere valutata come credito nei confronti del gas serra anidride carbonica. Con la deforestazione si alza il livello di debito di CO2, ma con la crescita delle palme si torna a parlare di credito. Con una valutazione, ancora empirica, relativa al bilancio debiti-crediti si può affermare che non sempre il credo soddisfa il debito. In primo luogo la coltivazione della maggior parte delle colture che conosciamo, senza esclusione della palma da olio, prevede una eliminazione delle infestanti (anche pesante) (ricordo che una pianta infestante è una pianta che non riveste alcuna funzione ritenuta “utile” per la produzione agricola, danneggiando o entrando in competizione – o parassitizzando – la stessa). Diversamente dall’ecosistema naturale (pre-deforestazione), un campo (piantagione) di palme da olio presenta poche altre specie vegetali, spesso specie pioniere. Non ho dati precisi sulla situazione del suolo dopo una coltivazione di palme da olio, però in un ecosistema naturale le specie presenti tendono, specialmente allo stadio di climax, ad occupare tutte le possibili nicchie (si badi bene: anche trofiche e spaziali!) a disposizione; nell’agroecosistema di palme da olio sono presenti in prevalenza queste ultime (le palme), piantate a distanza ottimale per l’efficienza e la resta di coltivazione (studi valutano un sesto ottimale con 143 piante per ettaro), senza la presenza di altre essenze nelle nicchie ecologiche lasciate libere. Oltretutto, pur crescendo bene in quegli ambienti, è verosimile che le continue asportazioni del materiale prodotto (i frutti della palma) provochino a lungo andare un impoverimento di alcuni elementi necessari nel suolo. Gli ambienti di coltivazione in generale non prevedono (e, anche, non possono permettersi dal punto di vista economico, talvolta) apporti di concimazioni pari a quelle delle nostre realtà agricole (europee). Sono però previste, in sistemi performanti di coltivazione, delle concimazioni (verso la fine del periodo delle piogge) in ragione di 250-500 grammi per pianta di solfato d’ammonio, e 250 grammi per pianta di cloruro di potassio (nel periodo dopo la piantumazione). Non è solo la deforestazione il problema, ma come accennavi anche te incide molto l’uso del suolo deforestato. Un impoverimento del suolo è valutato per la produzione stessa, ma non in relazione al ritorno a ecosistemi naturali (anche perché non vi è previsione di ritorno). Nei casi eventuali di rinaturalizzazione, per quanto visto e per via dello sfruttamento dei suoli, potrebbero servire anche diversi anni o, alla peggio, secoli prima del raggiungimento delle qualità del suolo originario, in primis della sostanza organica. In un ecosistema naturale non c’è l’operatore che elimina i rami morti e preleva in continuazione i frutti della palma, come non ci sono solo palme da olio in produzione con una genetica e un impianto volto alla massimizzazione delle rese.
I temi di cui si sta trattando non sono comunque stati sottovalutati dai grandi Paesi, tanto che nel 2004 è stato istituito il cosiddetto RSPO (Roundtable on Sustaineble Palm Oil), che ad oggi certifica il 20 % delle coltivazioni di palme da olio, con 2.58 milioni di ettari valutati fino ad ora nel 2015. Si tratta di una non-profit che unisce gli stakeholder da 7 settori della produzione di olio di palma (produttori, processori o commercianti, produttori di beni di consumo, dettaglianti, investitori e banche, organizzazioni sociali ed ambientali non governative – ONG).
I suoli sfruttati per questa coltivazione sono stati rubati alle foreste pluviali tropicali, che cercano sempre di “riprenderseli”, ma difficilmente torneranno, almeno nel breve e medio periodo, alle condizioni di “naturalità” originarie.
Per quanto riguarda invece il discorso sulle specie animali, al di là di quelle trattate e divenute anche simbolo della deforestazione per l’olio di palma (ad esempio l’orango), è verosimile che la fauna locale cambi, all’interno delle coltivazioni stesse (anzi: è sicuro). Come accennato nel documento, però, gli studi non presentano una univocità di dati, tanto che per certe specie (già presenti, s’intende) è possibile registrare un declino in corrispondenza delle piantagioni, mentre per altre un incremento del loro sviluppo o quantomeno una stabilità nella loro presenza.
Gli impatti di questa coltivazione sono diversi, e una corretta valutazione è ancora attesa in gran parte delle piantagioni oggi presenti nelle aree interessate.
La discussione è stata molto interessante e Davide ha fornito diverse testimonianze a difesa delle sue riflessioni.
Il mio punto di vista è che dobbiamo differenziare le situazioni produttive ed i contesti geografici e sociali. E’ questo che determina impatti diversi. In Indonesia come in Sud America lo sviluppo sociale indotto dall’agricoltura è fondamentale ma è necessario avere una coltivazione sostenibile. Per poter sfruttare meno le risorse è necessario avere tecnologie d’intensificazione sostenibile (la palma è già una coltura molto più produttiva rispetto alle altre oleaginose e quindi richiede a parità di produzione meno suolo).
L’entità della forestazione deve essere proporzionale ai benefici ambientali e questo comporta che in alcune zone deve essere interrotta mentre in altre zone può essere condotta nel rispetto della biodiversità e dei benefici ambientali.
Ecco perché è importante che tutte le produzioni siano certificate e tracciabili perché questo rappresenta una garanzia etica di comportamenti imprenditoriali.
Vi allego della documentazione di dettaglio per il vostro interesse. E’ del materiale che ho raccolto di recente in un convegno a cui ho partecipato a giugno dove ho tenuto una relazione sulla sostenibilità della coltura di palma da olio (vedi documenti allegati). Dobbiamo riflettere su quello che abbiamo fatto nei nostri territori, la Pianura Padana, oggi agricoltura intensiva ma in passato palude e boschi. Grazie a quella trasformazione – storica – tanta ricchezza è stata creata rendendola una delle aree più produttive d’Europa. Sono stati creati paesaggi protetti dall’UNESCO (pensiamo alle LAnghe) e anche biodiversità (la risicoltura è oggi custode di più di 1/3 della biodiversità globale dei nostri territori ma prima non c’era!). Nei nostri territori e in quelli lontani dobbiamo riflettere su come essere custodi – quindi coltivando – senza sperperare le risorse – quindi sostenibili – realizzando un atto sociale in termini di sicurezza alimentare – quindi intensivi.
Vi allego della documentazione di dettaglio per il vostro interesse.